Decine di scatti dalla sua casa sul Bosforo. E un libro fotografico senza alcun testo. Lo scrittore si è preso una pausa dai romanzi per dedicarsi a un’altra passione: fare l’artista visivo
Orhan PamukNon è una vista qualunque quella su cui si affaccia il balcone di Orhan Pamuk a Istanbul, e che lo scrittore turco non si stanca di fotografare. La veduta sulla metropoli a cavallo fra Occidente e Oriente, e sul Bosforo che separa l’Europa dall’Asia, è carica della storia e delle leggende che hanno riempito le pagine dei suoi libri, e lo hanno forgiato come persona e artista.
«Mi chiedono sempre come faccio a concentrarmi sulla scrittura in questo salotto, ma ormai ho fatto l’abitudine a questa vista magnifica», dice Pamuk all’Espresso in un’intervista sul suo primo libro fotografico, “Balkon” (edito da Steidl) , e sul tema del prossimo romanzo. «Ho calcolato che nei pochi mesi in cui ho raccolto le istantanee stampate in “Balkon”, la mia ultima pubblicazione, ho scattato una media di sette fotografie all’ora», racconta.
Sfogliando il libro si stenta a credere che la varietà di soggetti, luci, angolature, atmosfere e colori possano essere stati immortalati tutti dallo stesso balcone. Compaiono la moschea di Cihangir e il monte Uludag, la vista sul Palazzo Topkapı e l’isoletta della Torre di Leandro, e poi il triangolo d’acqua che unisce il Mare di Marmara, il Bosforo e il Corno d’Oro con il suo continuo viavai di navi. Eppure Pamuk non si è spinto oltre il suo ampio appartamento nel quartiere istanbuliota Cihangir, laboratorio del suo genio artistico a 360 gradi.
«Vorrei dedicarmi a tempo pieno alle arti visive ma, se comincio a farlo, dopo un po’ mi sento depresso. Non riesco a sentirmi intelligente e importante come quando torno a fare lo scrittore», racconta l’autore premio Nobel della letteratura.
Indica lo scrittoio con il taccuino sul quale sta scrivendo a mano il suo nuovo libro. Cammina inquieto per il salotto. «A questo tavolo scrivo i miei romanzi, a quest’altra scrivania mi siedo quando voglio diventare pittore, spesso la notte quando sono un po’ ubriaco», racconta. «Quando disegno mi sento felice ma un po’ sminuito e demoralizzato, così la mattina torno al tavolo della scrittura dove sono triste ma mi risollevo, torno ad essere il grande scrittore Pamuk. Per molti anni mi sono vietato le gioie delle arti visive per concentrarmi e imparare il mestiere della scrittura: dipingere la realtà con le parole. Ma ora l’artista segreto ha deciso di uscire allo scoperto», dice.
In “Balkon” il Pamuk delle arti visive trova così sbocco in una terza via che descrive come “fotografia paesaggistica.” «Sono influenzato dalla pittura malinconica del romantico inglese William Turner, dall’impressionista Claude Monet, dall’americano James Abbott McNeill Whistler», spiega.
Nel libro ha voluto eliminare le parole scritte fino ad omettere persino le didascalie, una mancanza tollerabile visto che si tratta sempre della vista dal suo terrazzo. «Nella fotografia paesaggistica, come nella pittura paesaggistica, l’immagine rappresenta prima di tutto lo stato d’animo dell’artista», dice: «Quando ho scattato queste foto mi sentivo depresso, provavo tristezza e malinconia che spesso ritrovo anche nella mia città. Non faccio foto in maniera cerebrale, studiata, quando scatto sono più istintivo e meno intellettuale», racconta. Alcune pagine di “Balkon” raccolgono una sequenza di foto di uno stesso soggetto: «La novità della fotografia digitale è che non è più necessariamente un’istantanea, ma può anche cogliere un soggetto in movimento, il che allontana la forma d’arte dalla pittura e la avvicina alla narrazione».
Le foto del libro “Balkon” sono esposte anche nella sede della fondazione “Yapı Kredi Culture and Art Publishing,” editrice dei suoi libri in Turchia. A corredo c’è una citazione di Umberto Eco: «C’è del genio nella pazzia di Pamuk».
«Mi piaceva molto Umberto. Credo che tanti scrittori fossero gelosi del suo successo. Io ho imparato da lui come pensatore, come esteta, come romanziere post-moderno che usa le complessità del passato con ironia. Mi piacevano la sua intelligenza e il suo humour. Non usava la sua immensa conoscenza come potere, la viveva anzi come una forma di liberazione», dice.
La mostra si trova nella centralissima Istiklal Caddesi, nei pressi di Taksim. «È una via che in me suscita ricordi commoventi», racconta Pamuk: «Da bambino, quando ci andavo a fare compere con mia madre, era una via di botteghe greche e armene, tornavo a casa facendomi gioco del loro accento. Ma già a metà anni Sessanta non c’era quasi più nessuno: le minoranze sono state spazzate dal violento processo di turchizzazione di Istanbul».
Pamuk si dice intristito dal fatto che oggi, dall’esterno, la sua mostra sembri quasi essere stata messa sotto sequestro dalla polizia. Il piazzale di fronte, in cui le anziane “madri del sabato” si radunavano in una veglia di protesta per la scomparsa dei propri figli durante il conflitto fra forze di sicurezza e guerriglia curda negli anni Ottanta, è transennato e pattugliato dalla polizia: «La cosa più triste è che in Turchia ormai siamo abituati a queste cose, e ce ne accorgiamo soltanto di fronte allo stupore dei visitatori internazionali», nota.
Di politica Pamuk preferisce parlare poco: dal processo per “insulto alla turchicità” nel 2005, quando parlò di «30 mila curdi e un milione di armeni uccisi in queste terre», è uscito indenne ma alquanto provato. Ricordando l’amico fotografo armeno Ara Güler, i cui scatti accompagnano la sua autobiografia “Istanbul,” e gli anni delle minacce di morte in cui viveva a New York e lo incontrava tornando in gran segreto sul Bosforo, dice che la Turchia ha fatto qualche passo in avanti sulla questione delle minoranze. L’epoca dello stradominio delle élite laico-kemaliste, portatrici di un nazionalismo pronunciato ispirato alle gesta e al verbo del fondatore della patria Mustafa Kemal Atatürk, era per loro più ostile e insidiosa rispetto all’era islamista di Tayyip Erdogan, spiega Pamuk.
«La libertà di espressione è sempre stata limitata, ma con il nuovo corso sono cambiati i tabù», aggiunge: «Vent’anni fa potevi criticare il primo ministro, ma guai a dire qualcosa sui militari. Oggi puoi criticare l’esercito, ma non puoi dire nulla sul Presidente». Le strade di Istanbul sono invase da manifesti del partito di Erdogan, l’Akp, che a fine marzo dovrà forse fare i conti con un lungo periodo di crisi economica ed inflazione fuori controllo quando la Turchia andrà alle urne per le elezioni locali. La sproporzione fra il numero di manifesti con il volto del candidato governativo Binali Yildirim e di quelli dell’opposizione ricorda alcune campagne elettorali nelle autocrazie arabe pre-primavera, come la Tunisia di Ben Ali. Yildirim, l’ex primo ministro fedele a Erdogan la cui carica è stata eliminata con la riforma in senso presidenzialista nella primavera 2017, sarà probabilmente il nuovo sindaco della città. «È una situazione che delegittima il risultato, capovolta rispetto a quella che penalizzava Erdogan 10 anni fa», dice Pamuk: «Siamo una democrazia elettorale, non una vera democrazia», sospira. Dopo la stagione del fallito golpe nell’estate 2016 e dei numerosi attentati, la Turchia è però finalmente un po’ meno oggetto dell’attenzione mediatica internazionale. Pamuk si compiace che i turisti stiano tornando ad affollare il suo “Museo dell’Innocenza” a Istanbul, ispirato all’omonimo libro, «anche se gli occidentali rimangono pochi».
Quasi certamente il turco contemporaneo più famoso nel mondo dopo Erdogan, Pamuk è divenuto un simbolo della Turchia laica, europeista e democratica che soffre l’ascesa di un’élite più legata all’Islam, al passato ottomano e al vicino Oriente moderno. Sorride identificandosi nelle parole sprezzanti del politico conservatore Hasan Celal Güzel, mancato da poco, che deprecava «quei liberali laici che abitano nei quartieri di Nisantasi e Cihangir».
«Fra la mia casa e il palazzo di famiglia a Nisantasi, si può dire che abito in tutti e due», dice, scoppiando in una delle sue lunghe, fragorose risate che interrompono spesso la conversazione. Lo scrittore rifiuta però il vecchio binomio che divide la popolazione turca in “turchi bianchi” e “turchi neri,” per lui un’eccessiva generalizzazione. «La mia importanza nella cultura turca è anche data dal fatto che da uomo laico so dare valore e recuperare la vecchia cultura orientale, penso per esempio al pensiero del mistico Rumi», dice: «In Turchia la gente vuole imitare l’Europa, ma fino a un certo punto», conclude. Su Turchia ed Europa, Pamuk si lancia in una dura critica dell’accordo sull’immigrazione sancito nel marzo 2016. «È imbarazzante per l’Europa che la principale richiesta rivolta alla Turchia sia quella di bloccare i musulmani in modo da non averceli fra i piedi. E la cosa ancora più comica è che un governo sedicente islamista si faccia pagare per questo. Gli islamisti bloccano i musulmani per non far arrabbiare gli europei», dice, senza riuscire a interrompere la risata. «Di politica ho parlato più che abbastanza».
Per quanto si accenda quando si dichiara “artista delle arti visive”, Pamuk si appassiona anche a descrivere gli studi e le ricerche per il suo nuovo libro. I lavori in corso si concentrano su un romanzo ambientato su un’isola immaginaria fra Creta e Cipro nell’aprile 1900, durante la peste. «Per i musulmani fatalisti l’imposizione della quarantena assomiglia all’imposizione della modernità», dice senza spiegare. Per scrivere il libro Pamuk si è circondato di cataloghi di oggettistica del diciannovesimo secolo. «Il più grande rischio in un romanzo storico è citare cose che all’epoca non esistevano. I miei personaggi possono usare soltanto gli oggetti che appaiono in questi vecchi tomi», spiega, mostrando degli schizzi con cui li studia. «“Il mio nome è Rosso” era ambientato in un periodo medievale, un tempo così lontano che la narrazione poteva divenire favola, ma questo si svolge poco più di cent’anni fa».
Nel frattempo, è in arrivo a Istanbul l’editore tedesco Gerhard Steidl per studiare nuovi libri fotografici. Dopo “Balkon” potrebbero arrivare “Backstreets of Istanbul,” “Istanbul by night” e “Istanbul sotto la neve”.
All’inizio della sua autobiografia “Istanbul” lo scrittore raccontava la convinzione infantile che esistesse in città un altro Orhan Pamuk, nella cui vita parallela si rifugiava dalla depressione «come in una scena da sogno». Tornano in mente quelle pagine assistendo allo sdoppiamento sofferto fra il Pamuk pittore e fotografo e il Pamuk scrittore, quasi tirannico nei confronti dell’alter-ego meno affermato. Una scritta su uno schizzo esposto da Pamuk alla Biennale di Istanbul del 2015 diceva: «Trantacinque anni fa ho ucciso l’artista che è in me e ho cominciato a scrivere romanzi». “Balkon” è il primo tentativo di fare giustizi.