Il famoso scrittore turco Premio Nobel per la Letteratura ci racconta il Museo dell’Innocenza
Nel Consorzio Costa Smeralda la cultura è sempre stata di casa. Fin dalla sua fondazione, grazie alla visione lungimirante del Principe Karim Aga Khan, la celebre destinazione turistica si è fatta promotrice delle più alte e prestigiose espressioni culturali internazionali, dall’arte all’architettura passando per la musica e la letteratura.
Ed è sulla scia di una storia e di una esperienza quasi sessantennale che il Consorzio Costa Smeralda, nel 2018, ha ideato e istituito un premio letterario in grado di valorizzare e promuovere la letteratura attraverso le opere di autori e scrittori illustri. Per l’edizione 2020 del Premio Costa Smeralda l’ospite più illustre doveva essere Orhan Pamuk, Premio Nobel per la letteratura nel 2006, dove avrebbe ricevuto il Premio Internazionale. Quando Stefano Salis incontrò lo scrittore turco a Istanbul per l’intervista, nessuno avrebbe immaginato che di lì a poche settimane il Covid-19 avrebbe travolto la vita di tutti. L’edizione 2020 del premio letterario è stata annullata, così come quella successiva, con la promessa però, da parte di Pamuk, di presenziare a Porto Cervo per quella targata 2022. Una promessa rinnovata in una recente visita a Istanbul, a gennaio 2022.
Stefano Salis: Orhan Pamuk, lei ha vinto il Premio Nobel per la letteratura ed è uno degli scrittori più noti e letti a livello internazionale. Per noi è un onore che abbia accettato il Premio Costa Smeralda e vorremmo parlare con lei dei temi che hanno finora contraddistinto la sua produzione letteraria. La città di Istanbul, la società turca, il significato di essere scrittori. Ma partirei dal luogo nel quale ci troviamo, il Museo dell’Innocenza, che è insieme un romanzo e un museo, una delle nuove mete turistiche più visitate della città…
Il Museo dell’Innocenza
Orhan Pamuk: Il Museo dell’Innocenza è sia il romanzo che ho pubblicato nel 2008 che il museo che ho aperto nel 2012, e dove ci troviamo ora. Li ho concepiti e immaginati insieme. La politica e la filosofia del museo in cui ci troviamo è spiegata nel romanzo.
SS: E quali sono?
OP: Il romanzo è in realtà un romanzo d’amore, spiega cosa ci succede quando ci innamoriamo. Non considero l’amore come un oggetto sdolcinato, zuccheroso, ma come qualcosa che accade nella vita di ciascuno di noi, come accadono gli incidenti stradali, quindi cerco di analizzare cosa ci succede quando ci innamoriamo.
Gelosia, inevitabile attrazione fisica, rabbia, ripensamenti, un po’ di prese in giro, e così via.
Il mio personaggio, Kemal, è aperto all’amore e accetta i suoi vari stati d’animo, e il dolore dell’amore è così duro per lui che comincia a raccogliere alcuni oggetti che ha condiviso e che sono la testimonianza della storia con la sua amata, Fusun.
Nel museo, per esempio, vediamo molti dei suoi vestiti, oggetti che ci ricordano di lei. Lui ne è infatuato e l’unica soluzione al suo dolore amoroso è “raccogliere” oggetti che gliela ricordino, la riportino indietro.
Quindi, questa è una storia d’amore attraverso la quale gli oggetti veicolano un significato. Gli oggetti raccontano le fasi della loro cosiddetta relazione. È una storia d’amore che copre 20 anni di Istanbul e, di fatto, comprende tutte quelle cose che erano facili da incontrare negli anni in cui la storia accadeva, gli oggetti popolari, gli utensili da cucina, i biglietti della lotteria, qualsiasi cosa. Carte d’identità, giornali. Ogni cosa che si possa trovare nella cultura popolare di una città, la si può trovare anche nel Museo dell’Innocenza di Istanbul perché i miei personaggi, quando erano innamorati, li usavano.
Più tardi, l’eroe del romanzo, Kemal, raccoglie tutti questi oggetti che gli ricordano di lei, e… ma siccome questa è una triste storia d’amore non vi racconterò il finale. Kemal li espone in un museo e il romanzo mi dà l’opportunità di discutere su cosa sia il collezionismo, sul perché ci si affezioni agli oggetti. Gli oggetti, proprio come le madeleine di Marcel Proust, ci riportano alla memoria. E se sappiamo che gli oggetti hanno il potere di restituire alla nostra mente il tempo perduto, allora alcuni personaggi, come Kemal, cominciano a raccogliere oggetti, in modo che gli oggetti ci facciano rivivere il passato. Infatti, il mio slogan per il museo è che i buoni musei sono luoghi dove gli oggetti, e attraverso gli oggetti, lo spazio si converte in tempo.
Istanbul
SS: Lo stretto legame che tiene insieme il romanzo e la città è anche un’altra parte decisiva della sua attività letteraria. Cioè il racconto di Istanbul…
OP: Vivo a Istanbul da 68 anni. Quando ci sono nato nel 1952, la popolazione era di 2 milioni e mezzo di abitanti. Ora si dice che siano 17 milioni, probabilmente ad essi si sono aggiunti circa 10 milioni di immigrati, per lo più provenienti dalla Turchia rurale e povera dell’Anatolia. Povera gente che è venuta ad arricchire la nostra città, cambiandola.
Sono stato qui tutto il tempo, tutta la mia vita, e mi sento molto privilegiato, quasi come se fossi stato scelto da Dio per essere testimone di una città che cresce. Da 2,5 a 17 milioni di persone in 60 anni. Sono stato qui tutto il tempo. Parigi è cresciuta da 2 milioni a 15 milioni di persone in 200 anni, quindi, ciò che Parigi ha vissuto in 200 anni, io l’ho visto in 60. E in Cina si sta verificando in 30. Questa è stata un’esperienza umana unica: poter osservare la città nella sua fase premoderna, cosmopolita, una città dell’Impero, e vederla precipitare e diventare molto povera nei primi anni della Repubblica, per poi risollevarsi e diventare una “persona” molto diversa, per così dire.
Quando sono nato a Istanbul, la città era decisamente provinciale, povera, mentre l’Europa era al culmine del successo. Noi eravamo ripiegati su noi stessi, senza mai raggiungere le glorie, il godimento economico e la ricchezza europea, e ci è venuta una sorta di tristezza.
Infatti, sostengo nel mio libro Istanbul, anche i turchi avevano usato la filosofia del guardarsi dentro, non chiedendo troppo alla vita perché viviamo ai confini dell’Europa e non ce la facciamo, siamo poveri, non siamo così moderni come vorremmo essere. Così, ho usato la parola husun, una sorta di malinconia turca che ci ha fatto accettare, in modo filosofico, questa tristezza di essere ai margini, l’idea che la vita non ci darà troppo; ma abbiamo anche sviluppato una sorta di etica dell’essere, un modus vivendi, non tutti noi, ma alcuni di noi. Questo è un tema che mi sta a cuore.
Quando scrivevo di Istanbul, non sapevo di scrivere di Istanbul. Quando i miei libri hanno cominciato a essere tradotti dopo gli anni Novanta, dopo i miei quarant’anni, hanno cominciato a chiamarmi lo “scrittore di Istanbul”. Non ci avevo mai pensato. Pensavo di essere come tutti gli altri autori che scrivono degli amici, dell’umanità, della famiglia, della scuola, del servizio militare, di tutto, di tutte le persone di Istanbul, ma non pensavo a loro come persone di Istanbul, pensavo a loro come persone. Poi, non i turchi ma i recensori internazionali dicevano: «oh, Istanbul, Pamuk, Istanbul, Istanbul, Istanbul, Pamuk» e ho pensato «oh, Istanbul, sì, io, naturalmente».
Così sono diventato più consapevole del mio rapporto con Istanbul. Nei miei primi libri ho scritto dell’Istanbul laica, occidentalizzata, dell’alta borghesia, della classe medio-alta. In seguito, con La stranezza che ho nella testa, ho scritto delle baraccopoli, delle classi inferiori, dell’immigrazione dalla povera Anatolia a Istanbul, dei venditori ambulanti della mia infanzia. Lo yogurt, tanto per fare un esempio, per noi, non era un prodotto in vasetto, ma dovevi aspettare il venditore ambulante, che lo chiamava “yuurt”; non potevi trovarlo nei normali negozi di alimentari. Poi arrivarono le prime aziende produttrici di yogurt, e le prime Coca-Cola. Ho visto passare dallo yogurt alla Coca-Cola. Dagli anni ‘50 ai ‘70, è cambiato tutto. L’evoluzione delle abitudini alimentari, la nuova moda di andare al cinema, i comportamenti più civili sulle strade. Amo questi argomenti, mi interessano tutti. Ho visto la mia piccola Istanbul crescere da vecchia città provinciale dell’ex-Impero fino a diventare un luogo molto più grande, complesso. Ci sono stato tutto il tempo. Scrivevo continuamente storie su di lei. L’architettura stava cambiando, la città stava diventando sempre più prosperosa. Alla fine degli anni Cinquanta, negli anni Sessanta, e ancora negli anni Settanta, ho visto distruggere e bruciare le bellissime case di legno, mentre la borghesia, la classe media, l’alta borghesia si lamentavano: «oh, ha bruciato la sua casa per poter costruire un edificio migliore». Poi hanno bruciato anche il loro edificio perché la città stava crescendo e anche il valore della terra stava aumentando.
Il punto è che io ero qui, dentro alla città, conoscevo tutti i pettegolezzi, tutte le storie, e avevo un senso della storia, della sociologia, dell’antropologia. Ho l’atteggiamento di uno studioso verso la mia città, leggo libri cercando di capirla. Mi piace questa città complessa. Una parte di me è il professore che cerca di capire la città, un’altra parte di me è come un bambino, che esce per strada, scatta foto, racconta storie, ritorna dai suoi amici a raccontare aneddoti divertenti. Così fanno gli scrittori e tutte le persone, tutti cercano e creano cose nuove. Vai in un quartiere dove non capitavi da cinque anni e lo trovi tutto cambiato.
Ho delle mappe di Istanbul e ho disegnato anche delle piante della città. La gioia di scrivere La stranezza che ho nella testa è stata anche la gioia di scoprire quartieri lontani della mia città, sapete? Tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta non c’era nessun quartiere in cui non fossi stato. Ma ora, negli ultimi 20 anni, mi dico «mio Dio, cos’è questo?» C’è un quartiere nuovo e io non c’ero mai stato. Era una landa vuota che avevo visto dall’aereo e ora è una città nuova. Infatti sia Stranezza che La donna dei capelli rossi, raccontano tutto questo. La mia città è cresciuta da 2,5 milioni di abitanti a 17 milioni. Che cosa è successo? Quali sono le storie? Quali le architetture? Cosa le sta succedendo? L’aspetto etico, forte e interessante di un mio romanzo è che mi sforzo sempre di scrivere dicendomi: «il mio scopo è di leggere manoscritti, guardare immagini» o, come in Stranezza, mi costringo a incontrare persone che lavorano, che costruiscono le loro case, le baraccopoli con le mani. Ho incontrato donne di 80 o 90 anni che andavano alla fontana perché, a quel tempo, non avevano nemmeno l’acqua corrente in casa. Così le ho raccontate. Negli ultimi dieci anni ho fatto interviste a persone, mettendole da parte per usarle nei miei romanzi.
SS: Mi sembra evidente che la scelta di cosa raccontare sia anche un elemento decisivo della sua opera letteraria. Come ha scelto di diventare scrittore?
Mio nonno era un ingegnere civile, così come mio padre e mio zio, quindi era una tradizione di famiglia. Mi hanno messo alle strette perché ero la pecora nera della famiglia. Dipingevo. Dicevano di aver accettato l’idea che io facessi il pittore. Comunque ho frequentato la scuola di ingegneria, dove c’erano anche corsi di architettura, ma dopo tre anni ho detto: «Non farò l’ingegnere. Sarò uno scrittore». E, come ho scritto nel mio libro, ho smesso di dipingere per 35 anni.
Quando ho iniziato a pensare di scrivere romanzi invece di fare il pittore, ho anche dovuto tener conto delle dimensioni del pubblico dei lettori turchi, dell’editoria turca. Mio Dio, era così piccola negli anni Settanta: si pubblicavano tremila libri al massimo, e se un libro ne vendeva duemila, era fantastico. Ora dicono che in Turchia pubblichino 70.000 titoli ogni anno, ho visto davvero l’industria del libro esplodere negli ultimi dieci o quindici anni. Ora molti autori stanno vendendo centinaia di migliaia di libri e l’editoria è molto forte e vivace.
Sono arrivato a questo argomento perché, mentre ancora nessuno leggeva libri, tutti facevano i primi passi nel mondo dell’editoria. I giornali turchi parlavano sempre di libri e tutti parlavano dell’importanza di leggere dei libri. Ma la maggior parte di queste persone non leggeva libri, pur avendo l’intenzione di farlo. Odiavo quell’atteggiamento perché leggevo libri in continuazione. È un discorso vacuo dire che i libri sono importanti. Lo sono. Ma io non scrivo libri per riformare o cambiare il mondo. Ho molti amici scrittori, che penso dicano: «Scrivo per cambiare il mondo, per riformare il mondo». In realtà, questa è una delle ragioni, non l’unica ragione per scrivere. A differenza di altri amici scrittori, per me l’arte e la letteratura sono auto-espressione.
Ho un forte bisogno di scrivere, di fare qualcosa, dipingere. Scrivere prima di tutto. E sì, certamente, sono anche una persona arrabbiata, che critica questo o quello, la politica o cose simili, ma onestamente non scrivo per la politica, sebbene la politica entri nelle mie interviste. Mi trovo sempre nei guai: a volte scappo, a volte li cerco, ma alla fine amo fare qualcosa con quello che vedo, con le parole, piuttosto che scrivere un romanzo politico. Forse perché, tra i 7 e i 22 anni, sono cresciuto sentendomi dire che da grande sarei stato un artista e un pittore. Così mi sono preparato per una vita da artista. E naturalmente, se insisti nel vivere come artista, puoi anche ottenere qualche riconoscimento.
Non sono però riuscito a uccidere il pittore che è in me. Così, 10 anni fa, è risorto. Il pittore è uscito e ha cominciato a fare cose del genere. Sto dipingendo, disegnando, mi diverto molto con i colori e la carta, e ve lo mostrerò. Vi aspetto!
Stefano Salis