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Intervista allo scrittore turco Orhan Pamuk: “Il segreto della letteratura”

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Considerato uno dei favoriti alla vittoria del premio Nobel per la letteratura già nel 2005, per Pamuk è arrivata nel 2006 la consacrazione definitiva e meritatissima

Lei ha detto “per me essere scrittore vuol dire prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, esplorarle pazientemente e fare di queste ferite parte della nostra scrittura e della nostra identità”. Qual è stata la sua ferita o la molla iniziale che l’ha portata a diventare scrittore?

Partiamo dal presupposto che lo scrittore e il lettore credono e immaginano cose diverse. 
Se uno intende diventare scrittore crede soprattutto che l’umanità e il “lettore immaginario” siano la stessa cosa, ossia gli abitanti del mondo e del suo Paese, cui si rivolge, siano la stessa cosa e capiscano esattamente ciò che lui intende comunicare. 
Lo scrittore si esprime in diverse forme: un poema, un romanzo, un’opera teatrale oppure combinando insieme tutte queste forme con una modalità d’espressione unica. Cerca di esprimersi in modo tale che la sua storia venga letta dai lettori come la “loro” storia, che godano di questa storia come se fosse la loro. Questo è il segreto nascosto della letteratura: riuscire a dire delle cose come se si dicesse qualcosa che appartiene a un altro.

Quando ci sediamo per scrivere desideriamo rappresentare o il mondo che c’è internamente a noi, o il mondo esterno e cerchiamo di trovare qualcosa che sia unico, che ci identifichi, che ci renda distinti, diversi, autentici rispetto agli altri. Cerchiamo di trovare la nostra voce nel nostro mondo, di inventare una voce che ci rappresenti. 
In questa ricerca, che è costante per coloro che scrivono, ambiamo a trovare qualcosa che corrisponda alla nostra unicità che ci renda diversi rispetto agli altri e questo “qualcosa” è proprio ciò che è collegato alla segreta ferita di cui parlavamo prima, quella che è nascosta in noi e che non siamo neanche sicuri di riuscire a trovare mentre scriviamo.
Un altro aspetto è la scoperta, la ricerca dolorosa di questo qualcosa nascosto.

Perché è così dolorosa questa ricerca?

Perché le cose che cerchiamo di esprimere non sono state dette, rappresentano dei tabù, e non mi sto riferendo a tabù di carattere politico o relativi a qualche forma di autoritarismo, ma le nostre morti interiori e gli aspetti del nostro spirito che sappiamo esistere, ma che non vogliamo conoscere. 
Tante cose sono nascoste, sono sepolte in noi e non sappiamo neanche se siamo in grado di esprimerle. Nella scrittura noi andiamo alla ricerca di dettagli e di gesti che ci rappresentino e, inoltre, che tutti conoscano, però temano di esprimere o non siano in grado di farlo. Possono essere piccoli gesti quotidiani, piccoli dettagli pittorici, aspetti sia culturali che politici nascosti in noi in modo doloroso, che nessuno esprime. Uno scrittore – dedicando magari trentacinque anni della sua vita alla scrittura – riesce ad esprimere questi concetti e il lettore può dire “sì, anch’io ho provato le stesse cose”.
Il mio suggerimento per chi volesse scrivere è “scoprite le vostre ferite nascoste”.

Lei ha scritto che immaginare di essere un’altra persona è relativamente facile, fa parte della quotidianità di uno scrittore, essere invece l’autore implicito di un libro è più difficile. Ci può spiegare questa differenza?

Innanzitutto vorrei parlare di un aspetto particolare dell’arte del romanzo. 
Io sono un umile servitore di quest’arte che è, sì, un’invenzione europea ma che tutti utilizzano e che ha proprio questa caratteristica unica che la contraddistingue: la capacità di identificarsi con gli altri. 
La letteratura può anche avere impliciti altri concetti oltre questo, ma il romanzo in modo particolare ha a che vedere con la comprensione degli altri, con la capacità di immaginare gli altri, di mettersi nei panni degli altri, di vedere e rappresentare nella  mente quelli che sono i sentimenti, le sensazioni la rabbia del prossimo.
Fondamentalmente un tratto nobile dell’animo umano, molto importante, è alla base del romanzo: la capacità di provare compassione e comprensione per gli altri. 
Questo deriva dall’identificazione con gli altri, dal saper provare il loro dolore. L’arte del romanzo sta proprio in questo. Tutti i romanzieri dovrebbero essere dotati di questa capacità anche se, viceversa, una persona che non è un romanziere può benissimo cercare di identificarsi con gli altri, ma non riuscirà ad esprimerlo in modo chiaro per iscritto.

Volevo poi spiegare, esemplificare quello che ho detto prima. 
Quando ho scritto Il mio nome è Rosso – e si tratta di un romanzo scritto dal punto di vista di 9 personaggi ma anche di alcuni oggetti – mi sono costretto, forzato a identificarmi con tutti questi personaggi. Naturalmente il processo di identificazione è stato un po’ artificioso perché non è possibile immedesimarsi in un colore, in un albero, o in un cadavere…. Tutto ciò implicitamente significa che l’arte del romanzo consiste nella capacità di impersonificare tutti questi personaggi e questi oggetti. 
Non è, com’è ovvio, sufficiente questa impersonificazione per realizzare un romanzo, che deriva invece da una complessa progettazione e una composizione che è nella mente dello scrittore e deve essere messa in pratica. 
Nella mente possiamo avere la “fantasia di un romanzo”, ma è poi difficile realizzarlo praticamente. Tutti gli scrittori dicono sempre “scriverò un romanzo su questo o quest’altro”, ma pochi riescono poi effettivamente a realizzare quello che avevano in mente: solo i più creativi riescono dalla “fantasia di un romanzo” a crearne effettivamente uno. È difficile poterlo fare, occorre diventare un’altra persona per farlo, per scrivere il romanzo di cui si sogna.

Ma allora, come si sviluppa il suo lavoro di scrittura?

Vi spiego come lavoro. Innanzitutto, sogno un romanzo, se ho in mente un romanzo. Quando giunge il momento di scrivere questo romanzo però devo trasformarmi nella persona in grado di scrivere quel romanzo in quanto nel mio stato normale non riesco a scriverlo, devo appunto “cambiarmi”.
Tutti i romanzi hanno un modo implicito di lettura, ossia quando occorre ridere ci si chiede che cosa voleva dire lo scrittore: “questa è una battuta? devo prenderla come una battuta o devo prenderla seriamente?”. 
Secondo una teoria della critica letteraria ogni romanzo ha implicitamente anche un modo, una modalità di lettura e il “lettore perfetto” viene anche definito il lettore implicito. 
Partendo da questa teoria ne ho elaborato una mia, relativa appunto al problema della scrittura e quindi applicabile a qualsiasi testo: ogni libro non scritto ha in sé un proprio scrittore implicito. Tutti i libri che io scrivo partono da un’idea platonica del libro stesso, poi c’è lo scrittore implicito che emerge e, faticosamente, scrive questo libro che spero poi voi apprezziate.

Qual è il suo punto di vista sulla questione dell’ingresso della Turchia in Europa?

Sono stato cresciuto da una famiglia ‘occidentalizzata’ e quindi mi sono nutrito da sempre della cultura europea. Per me è qualcosa di naturale pensare all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, ma a parte questo aspetto sentimentale, dal punto di vista utilitaristico sarebbe positivo che la Turchia entrasse in Europa perché garantirebbe uno stato di diritto decente, un’economia decente, il rispetto dei diritti umani, l’assenza di intervento dell’esercito negli affari politici, una società civile e libera.
Questi sono gli obiettivi politici e le motivazioni positive dell’ingresso della Turchia in Europa dal punto di vista dei turchi.
Dal punto di vista degli europei sono fermamente convinto che l’Europa dovrebbe essere basata sui concetti di egalité, fraternité e liberté, piuttosto che sulla sua storia cristiana.
Se l’Europa è un luogo esclusivamente cristiano, allora no, la Turchia non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea, ma se l’Europa è invece frutto del suo Rinascimento, del suo Illuminismo, della sua modernità, della libertà di cui gode adesso, allora sì la Turchia deve entrare in Europa. Sarebbe bene che l’Europa si definisse secondo questi principi e non secondo principi religiosi.

Tema scottante di questi anni è il fondamentalismo. Cos’è per lei?

Quando ci si riferisce al fondamentalismo si pensa a quello religioso, e in Occidente abbiamo degli esempi anche di fondamentalismo religioso: pensiamo a Bush che flirta con i fondamentalisti religiosi statunitensi, pensiamo alle decisioni prese sul tema dell’aborto o in generale quelle di carattere medico che negli Stati Uniti vengono prese da un Presidente fortemente influenzato da questi fondamentalisti religiosi.
Questo è il fondamentalismo come lo intendo io e non mi soffermerei su altre forme che non necessariamente sono negative: se c’è qualcuno che si sente unito ad altri da una serie di scritti, da testi e che crede che debbano costituire la guida della sua vita, non sono in disaccordo. Non condivido invece i fondamentalismi religiosi che ritengo intolleranti, non attenti ai diritti umani e politici delle persone e che annullano i vantaggi della modernità.

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