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Vincenzo Trione: «Andare nell’atelier significa misurarsi con opere che non sono ancora diventate dei prodotti»

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L’intervista al finalista del Premio Costa Smeralda, per la saggistica, filosofo, professore alla IULM nonché critico d’arte autore di Prologo Celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer

Cos’è davvero un atelier? È un laboratorio creativo, un rifugio personale e talvolta persino una biblioteca, dove l’immaginazione prende forma e si trasforma, consentendo all’arte di emergere. In “Prologo Celeste.Nell’atelier di Anselm Kiefer“ (Einaudi) – finalista Premio Costa Smeralda per la Saggistica – Vincenzo Trione ci accompagna nella bottega di Anselm Kiefer, tra i massimi esponenti dell’arte contemporanea, svelandone l’opera ricca di riferimenti culturali, filosofici e letterari.

Come si sente riguardo la candidatura al Premio Costa Smeralda per la saggistica?

È un invito che mi ha fatto particolarmente piacere, perché è un è un premio che soprattutto negli ultimi anni ha assunto una fisionomia di grande prestigio, la selezione è fatta da da figure di altissimo livello e quindi ne sono particolarmente felice.

Ci può spiegare come è nata l’idea per il suo ultimo saggio?

Paradossalmente è un libro che ho cominciato a pensare tantissimi anni fa, ci sono delle ragioni anche autobiografiche dietro: un’ adolescenziale visita insieme con i miei genitori al Moma di New York alla prima grande mostra americana di Kiefer. Poi nel corso degli anni ho scritto spesso di Kiefer in diversi libri, gli ho dedicato lezioni, conferenze, seminari. Spesso mi sono interrogato su di lui, poi è venuta proprio la necessità di provare ad andare all’origine del suo lavoro e ho scelto di di recarmi in questi due studi di Barjac e di Croissy – che sono degli atelier,  ma sono molto di più di atelier – dove ho vissuto per qualche tempo e ho provato a tirar fuori da questa esperienza diretta un racconto critico che cerca anche di svelare non solo il luogo di lavoro di Kiefer ma anche origine del suo immaginario.

Come hai visto evolversi l’arte di Anselm Kiefer nel corso degli anni, e in che modo questa evoluzione si riflette nei suoi luoghi di lavoro?

Nella storia dell’arte gli artisti si potrebbero dividere in quelli i mercuriali, che tendono a cambiare ininterrottamente stile, linguaggio, modalità, e quelli sostanzialmente ossessivi. Kiefer è uno di questi. Kiefer è un artista profondamente ossessivo, la cui opera sembra governata dal concetto nietzschiano di eterno ritorno, cioè Kiefer ritorna ininterrottamente da quando era ragazzo sugli stessi motivi. Questo processo circolare della sua opera è dimostrato anche dal fatto che spesso abbandona, riprende e modifica opere già realizzate. Perché in fondo l’opera di Kiefer non è mai finita, ma è un’opera sottoposta a un ininterrotto processo.

Ci sono state delle sfide particolari nella stesura di questo saggio, magari qualcosa che non si aspettava di trovare nell’atelier?

Sì, assolutamente perché io quando sono partito con il progetto di questo libro ero convinto già di conoscere molto bene l’opera di Kiefer, appunto perché la stavo frequentando da tanti anni. Quando sono andato nell’atelier opera d’arte totale di Barjac, ma soprattutto quando sono andato nell’atelier mente archivio di Croissy, ho capito di non aver capito ancora nulla. E quindi, come l’opera di Kiefer per qualsiasi spettatore si caratterizza per una una forte stratificazione materiali, quando si visitano quegli archivi e  quegli atelier si capisce che c’è una stratificazione di riferimenti culturali, filosofici, mistici e letterari che entrano e abitano l’opera d’arte e soltanto attraverso la visita all’atelier, attraverso la la visita alla biblioteca e all’archivio, e anche l’incontro con i moodboard –  che sono all’origine dell’opera di Kiefer – si capisce qualcosa davvero un po’ di più di lui.

Quale messaggio vorresti che i lettori scoprissero attraverso il libro e l’esplorazione degli spazi creativi di Anselm Kiefer?

Kiefer È un artista che è profondamente radicato nel nostro tempo, ma è anche un marziano dell’arte del XXI secolo. Con una battuta Kiefer ama ripetere che lui ha 2000 anni di storia, è una battuta ma in realtà racconta i costanti rimandi e riferimenti che stanno dietro la sua opera. Ecco, quello che mi sono prefissato con questo libro e provare ad assegnare un enorme centralità al confronto diretto con l’opera d’arte, andare nell’atelier significa misurarsi con opere che non sono ancora diventate dei prodotti, non hanno ancora un valore di merce, ma è come se fossero una lingua parlata, ancora imperfetti hanno ancora il respiro dell’artista, sono suscettibili di ininterrotte trasformazioni. Ecco, io sono nel momento in cui nell’atelier anche la pratica critica cambia completamente. Questo libro nasce idealmente da una pagina di Denis Diderot, che è stato un po’ il uno dei grandi padri della critica d’arte moderna, il quale invitava i critici più giovani, se avessero avuto voglia di capire l’arte, ad andare a visitare gli atelier. Ecco, io ho provato a mettermi sulle tracce di quel suggerimento e credo che per tutti i curiosi dell’opera Kiefer questo libro può essere un’occasione piuttosto unica per visitare entrare dentro il suo Atelier.

Un’ultima cosa che mi mi fa piacere sottolineare è che il libro è uscito con qualche mese di anticipo rispetto alla mostra di Palazzo Strozzi di Firenze e praticamente in contemporanea con Anselm, il film che Wim Wenders ha dedicato che a Kiefer. Io volutamente non avevo visto il film prima della consegna del libro proprio per evitare di poterne essere in qualche modo influenzato. L’ho visto finalmente  qualche settimana fa e devo dire che mi ha sorpreso molto, perché ci sono davvero tanti punti di contatto in modo particolare il riferimento alla centralità dei due Atelier e far emergere la dimensione politica che sta dietro l’opera di Kiefer.

Francesco di Nuzzo

Credits: Emanuele Perrone

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