Il reportage della giudice del Premio Costa Smeralda Chiara Valerio che ha scelto di andare in Giappone per non dimenticare il tragico bombardamento atomico
A ottant’anni dal tragico bombardamento atomico di Hiroshima – cui seguì tre giorni dopo quello su Nagasaki – restano ancora impresso nella mente le parole scritte di Takashi Nagai, medico superstite degli attacchi americani: «La persona dell’amore è la persona del coraggio che non porta armi». Una frase che è stata presa in prestito anche da Papa Leone XIV per rimarcare la necessità di “deporre le armi” per arrivare all’unica “vera pace” possibile. In uno scenario segnato da guerre, crescenti tensioni e contrapposizioni, «occorre ribadire con forza che l’uso o anche la sola concreta minaccia di introdurre nei conflitti armamenti nucleari appare crimine contro l’umanità», ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «La architettura globale del disarmo e della non proliferazione delle armi nucleari, tra i cardini del sistema multilaterale faticosamente costruito nel secondo dopoguerra, non può essere abbandonata, a rischio di accelerare un clima di scontro».
Se da un lato persiste il rumore delle bombe, dall’altro lato del mondo regna il silenzio. È ciò che ha raccontato Chiara Valerio, scrittrice e giudice del Premio Costa Smeralda, nel suo reportage pubblicato su La Repubblica. Un viaggio che l’ha portata nel cuore ferito del Giappone nel lontano 6 agosto 1945. Prima di arrivare a destinazione è riuscita a tenere insieme l’immaginario popolare (il personaggio di Ken Shiro) con la letteratura di oggi, citando La pioggia nera di Ibuse Masuji (“Dicono che da ora e per 75 anni a Hiroshima e a Nagasaki non crescerà più neanche l’erba”) e i racconti inediti della letteratura giapponese sull’atomica.
Quando arriva all’A-Bomb Dome, oggi Hiroshima Peace Memorial, «i battiti aumentano, le chiome degli alberi sostituiscono facciate e tetti, e, nonostante il traffico, umano e meccanico, percepisco solo il silenzio». Chiara Valerio osserva tutti gli oggetti sopravvissuti all’usura e allo scorrere del tempo. Orologi, abiti. Un’ombra che è «ciò che rimane di un corpo umano seduto su un gradino a poche centinaia di metri dall’epicentro». Uscendo dal museo, ascolta i tocchi della campana. Un monito, vista la presenza di tantissime persone in perenne silenzio, per impedire all’uomo di autodistruggersi, di nuovo.
Riccardo Lo Re